Si tratta di una scelta difficile che porta il gruppo di Unicredit a dover decidere sulle politiche di razionalizzazione da attuare in Italia. Una lotta che è iniziata alla fine del 2012 con la necessità di ulteriori tagli dovuti alla crisi. Nei piani strategici di Unicredit il nome usato era “uscite incentivate” ma in realtà i sindacati di categoria l’hanno considerato un ricatto perpetrato verso la categoria di coloro che avevano maturato il diritto alla pensione o comunque gli erano molto vicini. In teoria una fascia di lavoratori anche privilegiata in considerazione del fatto che ormai, viste le caratteristiche dei contratti odierni, cioè privi di continuità e quindi non sottoposti alla tutela dei sindacati, almeno, in loro aiuto si è levata una voce. MA al di là di questo restava allora, ma resta tutt’oggi, il problema, non indifferente, di quegli ulteriori tagli a 800 lavoratori che rappresentava l’ultimo ciclo di migrazioni al di fuori di Unicredit alla fine del 2012. Il fatto più grave, però, si è presentato quando 40 di questi lavoratori non hanno voluto accettare le proposte avanzate da Unicredit già a settembre del 2010 con il primo piano di ristrutturazione accettato dai sindacati e che prevedeva tagli per circa 1600 lavoratori. Per convincere i recalcitranti il gruppo si impegnava a dare una serie di incentivi. Il necessario per far capitolare la maggior parte. LA maggior parte ma non tutti ed è proprio su questo scoglio che rischia di nascere una battaglia non solo interna alla stessa Unicredit e ai suoi sindacati, ma anche intestina ai sindacati stessi di categoria.
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